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Joy, la storia dell'infermiera che contribuì a inventare la fecondazione in vitro

  • Immagine del redattore: Eleonora Voltolina
    Eleonora Voltolina
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 6 min

Alla fine dell'anno scorso è uscito su Netflix “Joy, un film che racconta la storia della medicina riproduttiva e in particolare dell'invenzione della fecondazione in vitro. L'attore Bill Nighy interpreta il ruolo del ginecologo Patrick Steptoe, James Norton è il biologo Robert Edwards e Thomasin McKenzie presta il volto all'infermiera embriologa Jean Purdy: la "triade" che inventò la fecondazione in vitro.


A Edwards e Steptoe nel 2010 venne assegnato per questo straordinario risultato il Premio Nobel per la medicina; Edwards, il solo all'epoca ancora in vita, in realtà aveva sempre sostenuto che anche il ruolo di Jean Purdy dovesse essere pubblicamente riconosciuto. Ben prima del Nobel, nei primi anni Ottanta – quando il nome dell'infermiera era stato lasciato fuori da una targa in onore dei pionieri della fecondazione in vitro – si era battuto per lei, mettendo nero su bianco: «Considero il suo contributo pari al mio e a quello di Patrick Steptoe». Eppure si è dovuto aspettare il 2022 per avere una nuova targa che includesse anche il nome di Jean Purdy.


Ma chi era questa donna, rimasta per così tanto tempo nell'ombra? Perché aveva abbracciato la battaglia per curare l'infertilità? Quali erano le sue motivazioni? Cosa guadagnò, e perse, in quell'avventura?


«Il film “Joy” è un grande omaggio a Jean Purdy, il cui contributo è stato trascurato per molti anni, nonostante lo stesso Edwards ne avesse riconosciuto l'importante ruolo all'interno del percorso culminato con la nascita di Luise Brown», afferma Zuzana Holubcová, responsabile del gruppo di ricerca sulla gametogenesi e sullo sviluppo embrionale precoce presso la Facoltà di Medicina dell'università Masaryk di Brno, nella Repubblica Ceca: «La storia è raccontata nel libro autobiografico di Edwards, “A Matter of Life”; il film differisce solo per alcuni dettagli».


Il quotidiano online americano Slate ha messo in fila in un articolo le differenze tra realtà e finzione, basandosi sui commenti di due vecchi colleghi di Edwards e Purdy. Il mistero più grande è probabilmente la malattia di Jean Purdy – l’endometriosi – che impediva anche a lei di rimanere incinta. Può essere che gli autori televisivi l'abbiano inventata di sana pianta, per aggiungere pathos alla storia? O forse fu Edwards che, mentre scriveva le sue memorie, scelse di non fare cenno alla malattia, considerandola magari una questione troppo privata? Quando il libro uscì, nel 1980, Purdy era ancora viva; morì di cancro cinque anni dopo, all’età di 39 anni.


«Scommetto che si tratta di un'invenzione degli sceneggiatori, per sottolineare il fatto che ci sono patologie per le quali non esisteva una cura all'epoca e non esiste nemmeno, purtroppo, ai giorni nostri. Secondo me qualche piccola differenza rispetto alla storia vera è poco rilevante: la chiave è il messaggio», sottolinea Holubcová: «Il film mi è piaciuto moltissimo e mi sono commossa, ancora una volta, vedendo la resilienza e la determinazione di quei coraggiosi pionieri che hanno lottato controcorrente. Gli autori del film sono riusciti ad mettere a fuoco la storia della fecondazione in vitro, così che anche un pubblico profano possa rendersi conto dei grandi risultati raggiunti dalla medicina riproduttiva, fin dai suoi albori».


Altri esperti di fertilità sono più propensi a credere che l'endometriosi di Purdy sia vera: «La cosa che più mi ha colpita e commossa è stata la storia di Jean Purdy. Ovviamente conoscevo il suo contributo alla scienza della fecondazione in vitro e sono contenta di vedere che finalmente le viene dato un riconoscimento più ampio. Quello che non sapevo è che avesse una sua storia di fertilità / infertilità, e che anche per lei in prima persona fosse impossibile restare incinta», afferma Jessica Hepburn, autrice del memoir “The Pursuit of Motherhood” e di “21 Miles: swimming in search of the meaning of motherhood”. Entrambi i libri si concentrano sulla necessità di parlare apertamente dello stigma dell'infertilità, e di quando la fecondazione in vitro non funziona. Tra le più note ambasciatrici di "fertility awareness" in Europa, Hepburn è stata anche una delle ospiti della prima stagione del podcast di The Why Wait Agenda. «La scena in cui Jean Purdy piange per ciò che non avrebbe mai potuto avere mi ha commosso moltissimo», confida : «Penso che questo sia uno degli aspetti migliori del film: far emergere entrambe le facce della storia della fecondazione in vitro la gioia e il successo, ma anche il dolore e il fallimento».


La fecondazione in vitro ci ha messo più di un decennio di ricerca e sperimentazione medica per divenire realtà: la nascita della prima “bambina in provetta”, Louise Joy Brown (“Joy” è il suo secondo nome, da cui il titolo del film), è stata lastricata dagli sforzi e dal dolore di centinaia di donne – che si autodefinivano The Ovum Club, il "club dell'ovulo" – che si sottoposero a procedure sperimentali invasive, insuccessi, aborti spontanei. Ma la scienza procede proprio per tentativi ed errori: e il progresso scientifico è letteralmente costruito sul correggere ciò che non funziona.


Altri esperti di fertilità hanno notato, nel film, la mancanza di uomini – quantomeno di uomini “normali”, non in posizioni di potere. «Una cosa che mi ha colpito è l'assenza di uomini dal lato dei pazienti!», esclama la professoressa Heidi Mertes, esperta di etica medica, bioetica ed etica applicata all'Università di Gand in Belgio: «Credo che l'unico che appare sia il padre di Louise Brown. Mi chiedo se fossero assenti davvero, nella realtà, o se questa sia stata una scelta dei registi».


Nel film, gli uomini sono onnipresenti quando si tratta di “esperti”: quasi tutti i medici sono uomini – il che era innegabilmente la regola negli anni Sessanta-Settanta, il periodo in cui è ambientato il film. Tecnicamente, poi, a ben vedere anche la triade professionale Steptoe-Edwards-Purdy era composta per due terzi da uomini. Gli aspiranti padri invece nel film restano invisibili, come giustamente nota Mertes, fatta eccezione per il signor Brown e alcuni uomini anonimi in una scena peculiare che mostra la consegna di una serie di campioni di sperma in barattolo.


Viene da chiedersi se la situazione sia completamente diversa al giorno d'oggi. Perché anche nell'attuale dibattito pubblico troppo spesso la medicina riproduttiva e la fecondazione in vitro sembrano ancora essere connesse principalmente alle donne – come se il desiderio di avere figli fosse solo un affare da femmine.


Anche le motivazioni che spingono una donna verso la maternità possono essere eccessivamente semplificate. «Il film è un buon tentativo di mostrare al mondo come è nata la fecondazione in vitro», sostiene Pratyashee Ojah, dottoranda in Biostatistica e Demografia presso l'Istituto Internazionale per le Scienze della Popolazione di Mumbai, che sta scrivendo una tesi di dottorato sugli aspetti socioculturali legati alla richiesta di trattamenti di procreazione medicalmente assistita in India: «Tuttavia, ho avuto la sensazione che il film abbia messo in primo piano le problematiche private del personaggio di Jean Purdy più di quelle delle donne dell'Ovum Club, e in generale delle donne. Se consideriamo gli aspetti sociali, non è stato colto l'atteggiamento delle famiglie delle donne in cerca di un figlio. La motivazione che spinge una coppia alla genitorialità può essere guidata da tante forze, e non solo dal desiderio personale».


In effetti, in “Joy” le motivazioni delle partecipanti all'Ovum Club risultano un po' piatte, tutte uguali. I dialoghi sull'importanza della medicina riproduttiva ruotano sempre attorno alle donne: tutti i protagonisti, in un modo o nell'altro, sottolineano il fatto che tante donne soffrono a causa della loro infertilità, si sentono in colpa e inutili se non riescono a diventare madri. Una delle partecipanti all'Ovum Club afferma addirittura che vorrebbe avere un bambino per avere “qualcosa di suo” – come se diventare madre fosse l'unico modo per realizzarsi.


Era tutta qui la maternità, cinquant'anni fa? Quant'era forte la pressione sociale che spingeva a fare figli, e che condannava chi non ne aveva? E la situazione, oggi, è davvero molto diversa?


“Joy” ha il grande merito di sollevare temi importanti e urgenti sulla voglia di diventare genitori, e sulla mano che la scienza può dare. Apre anche il dibattito sul perché le persone desiderino avere figli, su cosa siano disposte a fare per realizzare il loro desiderio, e su cosa la medicina riproduttiva abbia da offrire in termini di diagnosi, farmaci, nuove tecniche, oggi anche di intelligenza artificiale. Dal 1978 ai giorni nostri oltre dieci milioni di bambini sono nati in tutto il mondo grazie a tecniche di procreazione assistita (PMA); ad oggi circa 500mila bambini nascono ogni anno grazie alla medicina riproduttiva.


È bene tenere a mente, però, che in media la fecondazione in vitro funziona ancora solo nel 30% dei casi. 47 anni fa Patrick Steptoe, Robert Edwards e Jean Purdy hanno aperto una strada straordinaria: ma c'è ancora molta strada da fare per poter garantire che ogni persona possa avere i figli che sogna.

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Questo articolo, come tutto il sito di The Why Wait Agenda, è stato prodotto dall'associazione Journalism for social change, un'organizzazione che crede in un giornalismo impegnato e partecipe, che possa dare tramite l'informazione un punto di vista laico e progressista sui temi della fertilità e della genitorialità e far evolvere la nostra società rispetto a queste tematiche. L'associazione, senza scopo di lucro, si sostiene anche grazie ai doni dei lettori: donando una somma, anche piccola, permetterete a questo progetto di crescere e di raggiungere i suoi obiettivi.

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