Quanto vale, quanto è riconosciuto, quanto è importante il lavoro delle donne? La Costituzione italiana parla di questo tema all'articolo 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore» è il primo comma dell'articolo. Un ottimo attacco, teso a vietare ogni discriminazione.
Ma poi ecco subito il primo slittamento: «Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare». «Sua» della donna, ça va sans dire. Le parole sono importanti: l'«adempimento» è l'assolvimento di un obbligo. L'aggettivo «essenziale» implica l'impossibilità di svincolarsi dalla «funzione» primaria attribuita alle donne, che è quella appunto «familiare». E questa funzione familiare non si riferisce solo a quel che le donne soltanto possono fare, in effetti – cioè la “produzione fisica” di bambini: è molto più ampia del mero periodo di gravidanza e allattamento e sottointende la cura della casa, dei familiari non autosufficienti, degli anziani.
Dunque il secondo comma dell'articolo 37 pone indubitabilmente le donne lavoratrici in una posizione subalterna rispetto agli uomini, liberi invece lavorare senza essere costretti ad adempiere nessuna “essenziale funzione”. Le donne insomma possono lavorare ed essere pagate alla pari di un uomo, a patto però che prima di tutto adempiano al proprio “dovere”. In “famiglia”. Si parte in salita.
L'articolo 37 poi si chiude con due commi focalizzati sul lavoro minorile. Ecco il colpo di grazia: si tratta dunque di un articolo che riguarda il lavoro di persone “deboli”, le donne e i minori, non pienamente adatti a lavorare, bisognevoli di tutele speciali. Quanta strada si deve ancora fare perché le donne abbiano piena cittadinanza nel mondo del lavoro. Bisogna certamente considerare che la Costituzione italiana è un documento che ha più di settant’anni, e che è dunque stato scritto in un’epoca in cui il solo concetto di parità di genere era impensabile. Le donne italiane avevano appena conquistato il diritto di voto (e non proprio tutte-tutte: la legge lo negava ancora alle prostitute!), e si muovevano in una realtà che non era abituata alle donne lavoratrici, tantomeno a donne che volessero e potessero stare nel mondo del lavoro in maniera paritaria agli uomini.
In Italia, del resto, fino al 1919 una donna che volesse lavorare aveva bisogno dell’ “autorizzazione maritale” per poter essere assunta. E in epoca fascista, proprio con l’intento di spingere - guarda un po! - le donne a concentrarsi sul loro compito di fare figli, vennero introdotte delle ulteriori limitazioni per scoraggiare il più possibile l’occupazione femminile, come il divieto di dirigere scuole medie e secondarie, o di sostenere concorsi ed esami di abilitazione per insegnare in alcune tipologie di scuola (però i posti di maestra giardiniera negli istituti magistrali erano riservati alle donne…).
Al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, la situazione era ancora catastroficamente arretrata per l’occupazione femminile.
Solo nel 1960, per esempio, una sentenza della Corte costituzionale aprì la strada alle donne per la carriera diplomatica – ci vollero poi sette ulteriori anni perché una donna entrasse effettivamente in quella carriera (e ancor oggi – i dati sono del 2020 – le donne sono meno di un quarto dei diplomatici di carriera italiani, e solo quattro con “rango di ambasciatore”). Solo nel 1963 vennero dichiarate illegali le “clausole di nubilato”, che erano frequenti nei contratti e che permettevano ai datori di lavoro di licenziare le dipendenti che si sposavano. In quello stesso anno le donne furono ammesse per legge a tutti gli uffici pubblici; nel 1965 vi fu l’ingresso effettivo delle prime donne in Magistratura.
In polizia le donne poterono entrare solo nel 1981; nella magistratura militare, nel 1989; l’accesso alle carriere militari venne concesso alle donne solo nel 1999.
Considerando questa situazione, le parole dell’articolo 37 non stupiscono, e anzi molti concordano nell'affermare che proprio su quell’articolo si siano fondate praticamente tutte le tappe che hanno via via rimosso gli ostacoli giuridici che impedivano alle donne di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro, avere – almeno potenzialmente – accesso a ogni mestiere.
Ma adesso che la parità di genere è un concetto condiviso e in primo piano, adesso che tutti i Paesi avanzati pongono le politiche per raggiungere l’equità di genere nei loro programmi pluriennali, adesso è il momento di riconsiderare e pesare con attenzione ogni parola di quell’articolo 37 della Costituzione italiana. E avviare una riflessione e un’azione politica per modificarlo, affinché si adegui al tempo che viviamo, e non descriva invece una visione vetusta e secondaria delle donne che lavorano.
Oggi «l’essenziale funzione familiare» – in tutte le sue declinazioni: dalla cura dei figli a quella dei malati e degli anziani, fino alla gestione della casa e dell’economia domestica – va svolta da tutte le persone che desiderano creare una famiglia. A prescindere dal loro genere.
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